L’eco del Black Lives Matter oltre le strade: il caso di Little Devil Inside

I can’t breathe.

Questo il doloroso incipit che ha dato inizio alle numerose manifestazioni che hanno attraversato le strade di centinaia di città in tutto il mondo sotto il simbolo #BlackLivesMatter.

Dopo il difficile periodo di lockdown e una pandemia, non dimentichiamolo, tuttora in corso, gli Stati Uniti stanno vivendo un forte periodo di tensione sociale. Ovunque – nelle strade, nelle piazze e sui social – incalzano proteste antirazziste, che sfociano spesso e volentieri in atti di violenza, commessi da entrambe le parti coinvolte.

Cos’è successo?

L’episodio che ha innescato le contestazioni è stata la morte di George Floyd, avvenuta il 25 maggio a Minneapolis (Minnesota). L’accaduto è diventato immediatamente virale grazie ai video diffusi in rete dai testimoni presenti sulla scena.  Le riprese mostrano un agente di polizia, Derek Chauvin, trattenere il corpo della vittima con il ginocchio premuto sul collo: gli 8 minuti e 46 secondi sotto la morsa si sono rivelati fatali per Floyd (come infatti evidenzierà l’autopsia in seguito). Al momento dell’omicidio erano presenti anche altri tre poliziotti, i quali hanno scelto di non intervenire, neppure a seguito delle suppliche da parte della vittima, che ripeteva di non riuscire a respirare. Le dinamiche dell’accaduto sono state ricostruite in maniera obiettiva e accurata dai giornalisti del New York Times (video).

Le immagini della vicenda sono state diffuse sui social tra il 25 e il 26 maggio e hanno subito generato l’indignazione del web (e non solo). Il sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, e il capo della polizia locale, Medaria Arradondo, hanno tempestivamente preso le distanze dal gesto, dichiarando la sua immoralità e disumanità. L’eco di questo evento ha riacceso il dibattito sul razzismo nei confronti delle persone di colore e, in particolare, sugli abusi perpetrati dalle forze dell’ordine statunitensi.

Il giorno successivo all’omicidio sono iniziate le manifestazioni a Minneapolis, ma ben presto si sono diramate in numerose città degli Stati Uniti. Il 27 maggio il movimento Black Lives Matter (BLM) ha organizzato una commemorazione per George Floyd a Los Angeles, portando così sotto i riflettori internazionali l’accaduto. Da questo momento in poi le proteste si sono fatte più intense e numerose.

Cos’è il BLM?

L’organizzazione Black Lives Matter nasce nel 2013 e prende il nome dall’omonimo hashtag diffuso su internet in seguito all’assoluzione di George Zimmermann, il vigilante che ha sparato e ucciso Trayvon Martin, un diciassettenne afroamericano. Ha ottenuto visibilità dopo aver coordinato le rivolte del 2014 nella città di Ferguson, dove altri due afroamericani, Michael Brown ed Eric Garner, erano stati assassinati.

Lo scopo di questo movimento è, infatti, battersi contro le ingiustizie a sfondo razziale che coinvolgono la comunità afroamericana, con particolare attenzione verso le violenze commesse dalla polizia e i soprusi del sistema giuridico statunitense. Secondo quanto dichiarato sul sito web, l’organizzazione non ha una struttura gerarchica, ma si presenta più come una collettività di persone con gli stessi obiettivi, che vanno a costituire un network globale. Il BLM si è fatto portavoce del sentimento di dissenso scaturito dalla sconcertante morte di George Floyd ed è sicuramente anche grazie al suo contributo che la vicenda è stata portata all’attenzione del mondo intero.

Quali sono state le conseguenze?

Le conseguenze delle proteste antirazziste e delle campagne portate avanti dal Black Lives Matter hanno avuto una ricezione incredibile, oltrepassando i confini nazionali e assumendo i caratteri di una rivendicazione unitaria dei diritti delle vittime di discriminazione. La call to action del BLM è stata colta da molti e tantissime sono state le iniziative a supporto del movimento. Non si parla solo di manifestazioni in piazza, ma anche di proteste che hanno avuto luogo sui social network.

Certamente la risonanza di queste proteste ha portato con sé una nuova ondata di sensibilizzazione sul tema e tante aziende hanno deciso di agire di conseguenza: HBO aveva deciso di rimuovere Via col vento dai palinsesti perché considerato razzista, Hulu ha rimosso tre episodi di Scrubs dove appariva la blackface, la catena Migros, invece, ha tolto dal commercio i dolci “moretti” poiché in molti lamentavano la natura razzista del nome o ancora i produttori di Epic Games hanno (temporaneamente?) rimosso le auto della polizia da Fortnite.

Il caso di Little Devil Inside

In quest’atmosfera di forte fermento sociale si collocano le accuse mosse nei confronti del videogioco Little Devil Inside, annunciato, tra gli altri, in occasione dell’evento streaming di Sony dedicato ai giochi in uscita su PlayStation 5, tenutosi l’11 giugno.

Sviluppato da Neostream, un piccolo studio sudcoreano, il gioco ha ricevuto un riscontro alquanto favorevole. Il trailer presenta un RPG dalle animazioni piuttosto interessanti; il motivo in sottofondo incalza le immagini che mostrano gli scenari più disparati e numerosi villain, insomma sembra promettere una buona dose di azione e avventura. A suscitare scalpore è stato, però, proprio uno degli antagonisti.

Nel breve video , tra i vari personaggi che il protagonista deve affrontare, appaiono degli uomini con indosso delle maschere, con grandi labbra, che sembrerebbero ricordare quelle delle tribù africane e dalle quali spuntano dei dreadlocks; inoltre, anche l’uso della cerbottana, il colore della pelle e gli abiti sarebbero finiti sotto il mirino delle accuse. Secondo molti utenti, tra cui alcuni streamer abbastanza noti su Twitch, il design di questi caratteri demarcherebbe degli stereotipi razzisti sui popoli tribali africani.

A seguito del polverone di critiche che si è sollevato, gli sviluppatori, attraverso un post su Facebook, hanno sottolineato che non era loro intenzione offendere o insultare nessuna etnia e che i disegni non erano stati ispirati da nessuna tribù nello specifico:

Racist stereotypes of any kind were absolutely not intended, we were not aware of the stereotypical connotations and wish to apologize to anyone who may have been offended by the character design. […] The design intention was to create characters who are protectors/guardians of a particular mystic region in the world of Little Devil Inside. We were not producing character designs referenced on any real African and/or Afro-American human tribes.

Inoltre, hanno annunciato che il design dei personaggi finiti sotto accusa verrà cambiato:

We will be making the following fixes to the current characters but if it ends up not being suitable to the game as a whole, we may change the design entirely.

1. Remove the Dreadlocks.

2. Change the bold lips.

3. Change skin tone.

4. Tweak the dart blower so it looks less like a joint.

Va certamente sottolineato che buona parte degli utenti si è schierata in difesa degli sviluppatori, sostenendo la natura non offensiva del gioco, in quanto i dreadlocks, ad esempio, non rappresentano più un carattere peculiare di una minoranza.

Viene da chiedersi se non si stia perdendo di vista il vero obiettivo di tutti i movimenti di protesta, ossia la rivendicazione dei diritti fondamentali dell’essere umano, troppo spesso negati a determinate minoranze. Tenendo conto dell’importanza pedagogica e educativa che ormai hanno assunto i videogiochi, qual è il limite tra questa e la libertà artistica e creativa degli sviluppatori? Avviando una crociata contro l’industria dell’intrattenimento e la sua rappresentazione delle minoranze, non si rischia di incorrere in un appiattimento dei caratteri entro schemi rigidi e inespressivi? Allo stesso modo, sarebbe opportuno aprirsi ad una visione più estesa delle diversità e tentare di dipingerne tutte le sfumature, scavalcando i muri del pregiudizio su cui spesso la critica presidia senza lasciare via di scampo, se non quella di cancellare e riscrivere il proprio lavoro.  

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