Fake news e internet: che fine ha fatto la verità?

Si sa, fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, e questo nel mondo del web sembra essere diventato più che un consiglio, una vera e propria legge da seguire.

La migrazione dell’informazione dall’analogico al digitale ha costituito il terreno fertile per la fioritura delle fake news, le quali, quasi in sordina, hanno inondato la rete e scardinato i principi di veridicità e autenticità posti alla base del lavoro giornalistico.

Ma facciamo un passo indietro. Durante il secolo scorso, per il giornalismo si è affermata come fonte di finanziamento principale la pubblicità. Le testate concedono spazi all’interno delle proprie pubblicazioni a fronte di una cospicua somma, riuscendo così a vendere ad un prezzo accessibile al pubblico i contenuti.

Con l’avvento del web, per questo settore, si è prospettata la possibilità di plasmare il proprio modello su quello televisivo: un media gratuito, in grado attrarre una crescente audience interessata ai contenuti, alla quale destinare anche inserti pubblicitari. Inoltre, con il progressivo slittamento verso il formato digitale, viene meno l’utilizzo del supporto cartaceo e ciò rappresenta un risparmio non indifferente.

Parallelamente alla concezione di un’informazione liberamente fruibile in rete, è però cresciuta la popolarità dei motori di ricerca. Questi ultimi si sono affermati come porte d’ingresso attraverso le quali accedere a tutti i contenuti presenti sul web. Essi lavorano su delle query formulate dall’utente e in breve tempo, attraverso degli algoritmi, scansionano, indicizzano e ordinano i risultati nelle cosiddette SERP (Search Engine Results Pages). La scansione e l’indicizzazione non avvengono nella rete, ma all’interno di database nei quali i motori di ricerca conservano le copie delle pagine web. I documenti che rispondono ai parametri della richiesta dell’utente vengono classificati secondo svariati fattori ed è l’algoritmo a decidere cosa mostrare prima e cosa dopo.

Evidentemente questo strumento, per quanto efficiente, non è in grado di decretare la qualità dell’informazione che analizza; allo stesso tempo, data la sua importanza, il ranking nelle SERP influisce sull’affidabilità e la reputazione di un sito.

Ad aggiungersi poi, a questa struttura, è il cambio del paradigma comunicativo da one-to-many a many-to-many. Ciò significa che l’interattività offerta dal web ha creato un ambiente dinamico nel quale ogni utente (inteso sia come singolo che come organizzazione) è libero di scambiare informazioni e contenuti con gli altri. Questo tipo di comunicazione si manifesta chiaramente nei social network, che hanno definitivamente superato il regime del one-to-many, sovvertendo la posizione di privilegio dei mass media e incoraggiando la nascita di un’audience attiva. Su questi presupposti si basa la crisi del lavoro giornalistico.

L’attuale proliferazione delle notizie non è di per sé la causa della nascita delle fake news, infatti queste esistono da molto tempo (la manipolazione dell’opinione pubblica attraverso le notizie è presente nell’antica Roma); d’altra parte, il flusso continuo di informazioni che si fondono con la miriade di contenuti presenti sul web e la velocità con cui esse, al giorno d’oggi, scorrono e si accavallano ha creato quel terreno fertile per le fake news di cui si parlava all’inizio.

Ma, a questo punto, viene da chiedersi quali sono le fake news? E perché sono così diffuse?

Le fake news, come suggerisce l’espressione stessa, sono notizie false che hanno lo scopo di diffondere pettegolezzi, influenzare l’opinione pubblica, creare squilibri e tensioni o semplicemente spingere l’utente a cliccare per generare guadagni dalle pubblicità.

In genere, questi annunci fanno leva sul lato emotivo dell’audience per attrarla e invogliarla a condividere l’informazione, favorendone in questo modo la diffusione. Esse sono pensate e confezionate proprio per incuriosire l’utente, scegliendo temi popolari e proponendo titoli accattivanti. La condivisione di determinate notizie suggerisce anche una certa pigrizia da parte del lettore nell’approfondire l’argomento e verificarne l’autenticità. Se ne deduce che il nuovo criterio di giudizio per le notizie sia la viralità e non la qualità o la veridicità del contenuto.

È doveroso chiarire, però, che non tutte le bufale vengono per nuocere. Molto spesso i malintesi scaturiscono da notizie che nascono con il solo scopo di fare parodia e che, come nel gioco del telefono, vengono condivise travisandone le intenzioni iniziali.

Allora individuiamo un’altra causa della popolarità delle bufale: molte persone non sono proprio in grado di distinguere una notizia vera da una falsa. Potremmo dire che è colpa del web, che ormai è impossibile capire se una foto è photoshoppata o no, che vattelappesca se Zuckerberg vuole sabotarmi con i suoi algoritmi matematici o se alla fine i vaccini erano velenosi (nel dubbio meglio condividere e far girare!). Ma una sottile – manco troppo – ingenuità non è certo una caratteristica del nuovo millennio e il famoso episodio dell’annuncio della presunta morte di Napoleone ne è una prova.

L’incapacità di riconoscere una bufala è una realtà tristemente diffusa e identificarne le responsabilità non è sempre facile. Che si tratti di un errore da parte di una fonte autorevole o che si tratti di un post di zia Rosalinda su Facebook, non si può negare che manchi proprio un’educazione all’informazione nel web.

Il fenomeno del cosiddetto analfabetismo digitale, ossia l’incapacità di comprendere e utilizzare le nuove tecnologie, si pone proprio come prerogativa per la diffusione di bufale, ponendo l’autorevolezza di una notizia diffusa dall’ANSA sullo stesso piano di un tweet pubblicato da un qualsiasi utente. Questo diventa ancora più allarmante se si pensa che i social network e i motori di ricerca sono, dopo la televisione, la principale fonte di informazione degli italiani.

Recentemente, le fake news si sono inserite in un dibattito intorno al concetto di post-verità.

In un articolo del 2017, Marino Niola (giornalista e antropologo) parlando della post-verità, la definisce come «la verità nell’epoca della sua riproducibilità tecnologica. Dominata dai social media che sostituiscono l’oggettività con l’opinione, l’attendibilità della fonte con la fascinazione della testimonianza, l’autorevolezza della spiegazione con l’incantamento della narrazione». Che l’informazione sia vera o falsa poco importa sui social; se chi condivide contenuti a puro scopo sensazionalistico è ben accolto e giudicato, allora la dimostrazione oggettiva e concreta della notizia passa in secondo piano. La rete che permette la diffusione di fake news è la stessa che, con uno sforzo in più, ne permette lo smascheramento e, tolta la pigrizia, ne deriva che si crede solo ciò che si vuole credere. Siamo nell’era paradossale della verità non più oggettiva, ma soggettiva.

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